Il Carnevale Sipontino
Prof. Giovanni Ognissanti
Archivio Storico Sipontino
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Cenni Storici
Nei paesi del Mediterraneo i riti del Carnevale hanno specifica origine agricola e risalgono a credenze e a culti antichi, come i Saturnali ed i Baccanali. In queste feste, si realizzava lo scioglimento dagli obblighi sociali e dalle gerarchie, e la ricerca dello scherzo e della dissolutezza era d'obbligo. Nelle città dove vi era una forte presenza ebraica, le manifestazioni carnascialesche coincidevano con la celebrazione del Purim. Essa cadeva a metà del mese ebraico di Adar e ricordava il sovvertimento delle sorti e il conseguente scampato pericolo per il popolo ebraico. Era una delle ricorrenze più gioiose e viene raccontata nella Meghillàth Estèr, il Libro di Ester, libro che fa parte del canone biblico. Probabilmente la comunità ebraica sipontina festeggiava il Purim, è dunque possibile che la tradizione pagana sia stata affiancata da quella ebraica e sicuramente soppiantata.
Simbolo del Carnevale Sipontino, è Zé Peppe, un povero contadino che malato di broncopolmonite, decide di passare gli ultimi giorni di vita all'insegna del divertimento per esorcizzare la morte. Zé Peppe veniva raffigurato con un fantoccio di pezza, che arrivava in città sul dorso di un asino. Questa rappresentazione ha molte similitudini con alcuni festeggiamenti carnascialeschi presenti in altre città adriatiche, soprattutto sulla costa dalmata. A Lagosta, un tempo isola italiana della Dalmazia, il Carnevale è chiamato "Poklad", dal nome del fantoccio che viene portato in giro per i le strade dell'isola. La festa ricorda un pirata saraceno che fu graziato dalla decapitazione e messo a cavallo di un mulo per poi essere successivamente condannato al rogo (da cui il vocabolo - in dialetto dalmato-veneto locale - "foclan" o foco, origine del termine "pokland").
Il primo riferimento storico alla celebrazione nel Carnevale nella comunità sipontina si riscontra in una lettera di Gian Tommaso Giordani a padre Maria Fania da Rignano, datata il 1839: "La miseria è vero che regna qui forse peggio che altrove, ció nonostante il nostro carnevale è stato animato piú di quello che ti han dato a credere". Una testimonianza del Carnevale dei primi anni del 1900 ci viene da Matteo Carpano, il quale, tra l'altro, scrive: "… Il terzo giorno peró le maschere evitavano il tratto di Corso Manfredi compreso tra via dell'Arcivescovado e via Campanile perchè su di essi si svolgeva il tiro dei limoni e delle arance malandate e dei cartocci di terra bianca, rossa e gialla …".
A Manfredonia, dopo la Grande Guerra le veglie danzanti si tengono, oltre che nelle "socie", presso il teatro "Eden"; ed è il periodo in cui il "ballo per casa" diventa veramente un rito.
E già nel periodo fascista si attrezzano i carri allegorici; addobbati con foglie e fiori, tirati da cavalli coperti di nappe e bordure varie.
Nel secondo dopo guerra il Carnevale esplode rinvigorito; c'è il desiderio di dimenticare, e presto.
Inizia una nuova epoca: dalle manifestazioni spontanee di gruppi o di coppie di maschere si arriva al "Carnevale Dauno", la cui prima edizione è nel 1954; e si svolge a Foggia, nel teatro "Giordano", e si riferisce al solo "Veglioncino dei bambini". A Manfredonia, invece, giá agli inizi degli anni ‘50, sulla scorta delle feste goliardiche, si impostano i primi carri in cartapesta. Da allora nasce una scuola che dura sino ad oggi, con le Istituzioni Didattiche a far da chioccia ai nuovi talenti.
Il Carnevale diventa sempre più bello, più grande e più famoso. Se i primi anni '70 sono sotto il segno dell'improvvisazione, dalla seconda metà in poi, e sotto l'egida dell'Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo il Carnevale viene pensato in termini manageriali. E si arriva così alla fine degli anni '80, con la consapevolezza che questo "prodotto" dovrà essere tutelato e valorizzato.
Ed ecco una silloge degli avvenimenti più importanti che hanno caratterizzato il nostro carnevale negli ultimi venti anni:
1990, Un Carnevale pieno d'iniziative: sei carri..., e tanta voglia di rilanciarlo. Fatto più unico che raro, i rappresentanti dei partiti politici sottoscrivono un documento per realizzare un ente stabile per la gestione del Carnevale e s'impegnano nella costruzione dei capannoni.
1991, Scoppia la Guerra del Golfo, è l'edizione… salta!
1992, Ancora tanti buoni propositi; viene nominato un comitato Tecnico-Operativo, che deve "reperire fondi" e rilanciare la manifestazione dopo lo stop bellico. Intanto si presenta il progetto della Cittadella del Carnevale presso l'ex Mattatoio comunale.
1993, C'è l'astensione della maggior parte dei carristi e di qualche gruppista. Non è una grande edizione, ma la partecipazione di pubblico e di maschere è numerosa.
1994, Continua lo sciopero. E si chiede più attenzione per la realizzazione dei capannoni!.
1995, Ritornano tutte le squadre di lavoro dei Carri e dei Gruppi. Si realizzano numerose iniziative tra cui il primo concorso per il logo del Carnevale. Viene predisposto il nuovo regolamento e nuovi criteri per la nomina dei giurati. Nuovo formato viene dato alla rivista. Ci sono i presupposti per il rilancio. Intanto appare in Commissione Cultura, la prima bozza dell'Ente di gestione presentata dall'Assessore Angelo Riccardi, il quale intraprenderà la costituzione dell'Istituzione.
1997 e 1998, Si è in attesa che vada in porto l'Istituzione del Carnevale Dauno, saranno delle discrete manifestazioni con ottima presenza di pubblico.
Nel 1999 si ha il primo Carnevale organizzato dalla Istituzione.
Il XXI secolo è foriero di tante novità; l'iniziativa più importante è l'inaugurazione dei Capannoni per la lavorazione della Cartapesta, poi vi è l'inserimento della manifestazione nel circuito delle lotterie nazionali, e la presenza come testimonial di Gigi Proietti e Renzo Arbore.
Per concludere, la nostra rassegna editoriale sul Carnevale Sipontino, riguarderà altri tre aspetti importanti: il primo sulla tradizione della "Socia", aspetto che connotava indissolubilmente le quattro giornate ludiche; il secondo riguarda la gastronomia; e la terza le sartine del carnevale, le quali, con le loro abili mani confezionavano e confezionano stupendi costumi.
È quindi una tradizione variegata, che si evolve e coinvolge in un turbinio di emozioni il popolo della plaga sipontina, una festa che da noi, non ha avrà mai fine.
La Socia
In più occasioni ci siamo soffermati a descrivere e spiegare la "socia sipontina", nelle sue connotazioni storiche e nella sua genesi popolare. E' da sapersi, e lo si apprende dallo Spinelli (fonte storica delle nostre tradizioni popolari), che nel ‘700, presso il Seminario dell'Orsini, aperto all'insegnamento non solo dei seminaristi, ma anche dei laici, sotto il patronato dei padri Scolopi, tra le varie materie si insegnava anche a tirare di scherma, a danzare e a recitare. E su via Maddalena, nel teatro voluto dai de Florio, sempre nello stesso secolo, i giovani sipontini si esercitavano in queste "concioni". Naturale che anche il popolo, che pure "serviva" presso i nobili, non voleva sentirsi estraneo a queste "performance", per cui si industriava ad imitare le modalità operative, nella scherma e nella danza. Ed ecco la socia, già presente nella tradizione locale nell'800, secondo il ricordo dei "vecchi" epigoni. E se le feste dei ricchi erano tenute al chiuso, nel cerchio ristretto dei propri ambienti, quelle dei poveri, fino ad una certa ora (mezzanotte), erano aperte alla "visitazione" di chiunque, purchè si rispettasse il cerimoniale codificato proprio sulla parola e sull'onore degli " andrini" .
La "socia", dunque, come scuola di scherma e come scuola di danza, poiché le "movenze" non sono dissimili. La "socia", anche come scuola di "dizione", nel sapersi imporre all'attenzione dell'ascoltatore e dell'interlocutore. La "socia", come capacità di saper subire le facezie e di poterle anche ridondarle. La "socia", infine, come capacità di aggregazione delle "famiglie".
Il rituale della visitazione credo che ormai faccia parte della "letteratura carnascialesca sipontina".
La comitiva di una socia, anche se con reconditi pretesti, andava a visitare le altre socie, a coppie, maschi e femmine (queste opportunamente mascherate). E già in questo andare da una socia all'altra, proprio per stare un po' soli, e non di rado senza che il maschio sapesse chi fosse la femmina che lo accompagnava, sta una delle valenze del nostro carnevale. Una volta entrati nella socia, e presentatisi al relativo capo socia (u chépe ndrine), si ballava; prima le coppie della comitiva, poi, i maschi, lasciate riposare le proprie compagne, invitavano al ballo le donne della socia ospite; indi i maschi della socia invitavano le donne della comitiva. E tutto regolare, fino a che si seguiva il cerimoniale.
Ma nel caso in cui, ed accadeva, una donna o le donne dell'una o dell'altra parte avevano qualcosa da ridire sul comportamento degli uomini, il tutto si regolava con altre forme, anche con il ricorso alla scherma rusticana. La limitazione dello spazio non mi consente di descrivere le modalità di istituzione (bbattèzze) della socia; certo è che non vengono trascurate "sante trinità" e "sacre scritture".
Altri tempi? Indubbiamente!. Ma lo spirito è immutato: la licenziosità, la trasgressione, la sfida, la valenza fisica, il misurarsi con l'avversario, specie nei giovani, non hanno tempo!.
La Tradizione Culinaria
La tradizione culinaria del carnevale sipontino è molto antica, riscontri se ne hanno nei documenti di archivio, in particolare dai "Cibari", cioè dalle note spese giornaliere e mensili, redatte dai Priori o dalle Badesse, per contabilizzare sia le entrate che le uscite dei conventi cittadini.
Dai "cibari" dei Celestini si riscontra che nel 1721 (seguendo una tradizione già invalsa nel ‘600), in occasione del Carnevale, si consumavano "pietanze straordinarie".
In queste "occasioni" erano presenti molti ospiti, sia laici che ecclesiastici, venuti a Manfredonia proprio per "celebrare" o "festeggiare" il carnevale.
L'essenzialità della cucina monastica era data soprattutto dalla carne di maiale e dai maccheroni.
Dai "Cibari" delle Clarisse si ha, in particolare, che il pasto tipico dei tre giorni di Carnevale era dato dai maccheroni (1783).
Tradizione che ci viene già indicata nel 1767, quando si riscontra che si sono consumati: bollito di carne di manzo, maccheroni, fatti a mano, e fegato stufato con la cipolla, cosparso con pecorino: bollito, maccaroni, fecato e nel 1777, allorché viene pure indicato che si devono consumare i maccheroni di Carnivalicchio.
E per maccheroni si devono intendere tutti i manufatti di farina ed acqua, con gli ingredienti vari, che si sono tramandati nel tempo, sino ai nostri giorni. Comprova ne è che le stesse ecclesiastiche avevano cura che le orfanelle a loro affidate imparassero anche le attività manuali nel preparare la pasta.
In una delibera decurionale, del 5 ottobre 1806, apprendiamo, tra l'altro, che presso il Conservatorio delle Orfane, mercè le buone maestre, si possono manifatturare pasta, panni, ed altro.
Per i dolciumi, come si rileva per gli 1775 e 1782, si hanno le "sfoglie", cioè un impasto di: ricotta, ova, cannella, garofani, zucchero, miele).
Non mancavano i taralli di semola con vin cotto: tarallucci nel dì di S. Luca (cioè semola e musto cotto) (1774).
Una costante è oltremodo il rustico tipico del Carnevale sipontino, la farrata, preparato sia dai Celestini e sia dalle Clarisse e di cui si hanno continui riferimenti nei "Cibari" dei periodi 1664-1670, 1765 e 1767.
Consuetudine corrente, da parte della Pubblica amministrazione, era fornire la popolazione (la "grassa" cittadina) di animali neri (tipo particolare di maiali), con i quali si potevano preparare i vari ragù e i vari arrosti.
E pure cura dell'Amministrazione era procurare la neve per le bevande da consumarsi nel periodo di Carnevale: neve occorrente al Comune per il Carnevale (1814).
Fra tanta varietà non mancavano i prodotti ricavati dalle seppie: Frutti delle seppie, Garofali e menne (1775).
Un lavoro oscuro: Le sartine del Carnevale
Come nascevano i vestiti della tre giorni di divertimento
Il Carnevale di Manfredonia, è ormai caratterizzato dalla lavorazione dei Carri Allegorici, ma un ruolo importante in questa manifestazione, riveste la lavorazione dei costumi. Oggi sono le mamme, le zie, le nonne a confezionare gli abiti. Spesso, si ricorre a delle sarte per imbastire un abito. Una volta questa usanza di andare da una sarta per preparare un abito carnascialesco, era qualcosa di speciale, perché già il rito di preparazione per il carnevale, era in se qualcosa di magico. Andando in queste sartorie, che poi erano delle vere e proprie abitazioni, c'erano gruppi di ragazze, che di solito cucivano attorno ad un braciere, d'inverno. Esse si disponevano a semicerchio, di fronte alla sarta, che insegnava il mestiere. Queste ragazze potevano avere un'età compresa dai 10 ai 20 anni. Quando si arrivava in queste case, loro ti squadravano dalla testa ai piedi, e sicuramente, dopo che andavamo via, si parlava dell'ultimo avventore che era entrato in casa. Queste ragazze che andavano ad "imparare il mestiere", di solito non venivano pagate, anzi, molte volte dovevano aiutare la padrona di casa a svolgere i servizi domestici.
Uno dei primi rudimenti del mestiere, era quello di imparare a mettere i "segni", poi dovevano imparare a fare la "piega". Infine dovevo esercitarsi a fare "u ‘nchiume", cioè un punto lungo per far mantenere la stoffa prima che venisse definitivamente cucita. Ma arrivare a questo punto già era un grosso risultato. Le più piccole praticanti, all'inizio andavano a comprare l'elastico, o il filo, oppure i bottoni. Oppure facevano la consegna degli abiti stessi.
Era quasi una gerarchia di compiti, che aveva il suo culmine, quando una praticante, imparava il taglio.
Queste ragazze, d'estate, si sedevano attorno all'uscio della casa e poi parlavano dei loro primi amori, qualche volta cantavano pure. Era una caratteristica tipica della nostra città. A Carnevale, come in altri periodi di punta, queste ragazze avevano un gran da fare. Molte clienti, commissionavano, il pagliaccio, altre ancora abiti di stile ottocentesco, altre ancora, un abito da "pacchianella". Altre volte si verificava, che la sarta, confezionava costumi in proprio. E durante il periodo di Carnevale, questi abiti venivano affittati. Molto spesso, si poteva trovare abbinata anche qualche maschera.
Difficilmente possiamo trovare attualmente, degli atelier, dove si insegna il taglio e cucito. Era questa delle sartine, una delle caratteristiche tipiche di una Manfredonia, che purtroppo oggi, non c'è più.
Prof. Giovanni Ognissanti
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